Nel trascrivere una relazione che ho tenuto nella scorsa primavera ad Urbino, in un convegno di psicologi, dopo avere parlato dell’ascolto del minore nel mondo del diritto, ho concluso così:
“Questa rassegna, un po’ noiosa, delle disposizioni internazionali, europee e italiane che hanno dato, via via, sempre maggiore rilievo alla partecipazione del minore ai procedimenti, non esclusivamente giudiziari, che portano ad una decisione che lo riguarda ha finito col porre in secondo piano il tema del mio intervento: l’ascolto del minore. Ciò non è un caso, se si pone mente alla natura strumentale che ha l’ascolto in generale e soprattutto quando è finalizzato a raccogliere l’opinione del minore capace di discernimento riguardo alle decisioni che lo coinvolgono.
Il fatto è, come ho accennato, che questo ascolto è uno dei più potenti mezzi di promozione del minore da oggetto di protezione a soggetto di diritti, anche di protezione, in relazione ai quali viene ad avere, grazie al diritto di essere ascoltato, il diritto di prendere parola e di farla valere ai fini della decisione che lo interessa.
Per tale via, il minore è riconosciuto come altro rispetto agli adulti che hanno potere su di lui e responsabilità per lui, è riconosciuto come persona che, se pure non è in grado di autodeterminarsi, ha diritto di influire sulle determinazioni che altri prendono per lui. Può accadere così che il pensiero, la volontà del minore intorno a tali determinazioni contrastino con il pensiero e la volontà di chi deve assumerle. E’ questo l’aspetto che può apparire inquietante della “differenziazione” che il diritto sta introducendo tra il minore e coloro che ne hanno la responsabilità, anche se sono i suoi genitori.
Aspetto inquietante, non tanto perché produce una ampliamento degli spunti di conflitto (i conflitti ci sono e ci sono sempre stati), quanto perché conferisce “dignità” giuridica al conflitto, tale da proiettare genitori e figli in veste di contraddittori davanti al giudice. Che non è il massimo che si possa auspicare.
Il problema o, se si vuole, l’obiettivo che abbiamo davanti è quello di coltivare il processo di “emancipazione” del minore dal potere patriarcale di decidere sempre e comunque per il suo bene, ma sopra la sua testa, senza che si produca l’evento che paventavo da ultimo. Problema arduo, la cui possibile soluzione richiede, innanzitutto, che ci si liberi, senza le incertezze e i traccheggiamenti cui ho accennato nel corso della relazione, dall’ipoteca paternalistica, si guardi in faccia (come altro da noi), con amore ma anche con rispetto, il minore; si solleciti la sua parola e la si tenga nel debito conto.”
Non per narcisismo premetto l’autocitazione in questo mio breve intervento sul disegno di legge riguardante i procedimenti minorili, ma per richiamare l’attenzione su due punti, uno di metodo, l’altro di merito, che mi sembrano importanti per affrontare correttamente la questione.
Il primo punto. Non possiamo e non dobbiamo limitarci ad un approccio tecnicistico. Questo è, a mio avviso, il limite del commento critico di Vaccaro, per altro verso pregevole. Pregevole, ma carente sotto il profilo della connessione tra processo e realtà. La costruzione del processo non può essere fatta soltanto richiamando e misurandosi con le “geometrie” della teoria del processo.
A mio avviso, il nodo critico, sia teorico, sia pratico, è se il minore debba essere parte come le altre che partecipano al processo. La mia risposta è che il minore in grado di farlo deve partecipare al processo, senza diventarne necessariamente parte in senso formale. La risposta consegue alla mia posizione circa il punto di merito, che ho succintamente esposto nel brano riportato, sottolineandolo.
E, allora, che fare? Da sempre, l’idea mia e non solo mia è che, se non possiamo inventare un processo ad hoc e dobbiamo per forza ricorrere ad un modello, quello da adattare alla realtà è quello del processo penale: ciò per una serie di ragioni, che sono troppo note per richiamarle.
Tra l’altro, rispetto al nodo critico, la procedura penale prevede la costituzione di parte civile, che è facoltativa e non resa necessaria dalla osservanza del principio del contraddittorio. Se e quando ne sarà il caso, il minore o chi per/con lui, se vorrà, si renderà parte formale del processo, altrimenti, sta a guardare cosa faranno gli altri nel processo, a partire dal pubblico ministero, con i poteri, ancorché limitati, che la parte offesa ha nel processo.
Trento, 5.1.2004 Dott. Gian Cristoforo Turri*
*Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Trento