L’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia, preoccupata per le notizie di stampa in ordine ad un progetto di riforma dei Tribunali per i minorenni, invita le parti interessate della società civile a prendere posizione sul punto.
Evidenzia che nelle procedure riguardanti i minorenni non si tratta soltanto di accertare un evento, o fatti storici, e di applicare una norma, ma piuttosto di interpretare comportamenti e situazioni connessi alla funzione genitoriale, alla luce di una pluralità di variabili (ambientali, sociali, fisiche, educative) che richiedono differenti competenze..
Sopprimere la componente privata dei Tribunali per i minorenni significa vanificare la cultura del minore sviluppata negli ultimi decenni del secolo scorso e che sempre più è oggetto dell’attenzione di esperti nelle varie discipline.
Il Tribunale per i minorenni, proprio in quanto a composizione mista, ha degli strumenti per comprendere i bisogni del bambino e garantirgli una reale tutela, sotto il profilo della crescita fisica, psicologica ed affettiva.
Non si può dimenticare, infatti che il minore è una persona in evoluzione, e proprio per questo in continua trasformazione; ciò implica necessariamente un’attività qualificata e non occasionale, di supporto al giudice togato. Solo un affiancamento continuativo permette, infatti, al giudice togato di leggere le trasformazioni nel tempo e di modulare conseguentemente gli interventi a tutela, funzione che una Consulenza tecnica d’ufficio (CTU), per sua natura e modalità, non permette di assolvere.
In un mondo che sceglie la specializzazione in tutti i campi, come strumento necessario per meglio rispondere alla complessità dei fenomeni, la ventilata riforma legislativa va nella direzione di una specializzazione solo astratta. Il paradosso è la creazione di una sezione specializzata privata degli specialisti, che, invece, inspiegabilmente, rimangono nelle sezioni agrarie dei Tribunali e nei Tribunali di sorveglianza.
L’Associazione chiede alla società civile di esprimersi se sia più complessa la situazione del detenuto adulto, o di una questione agraria rispetto a quella relativa alla crescita di un bambino.
Del pari inaccettabile è l’ipotizzata separazione delle competenze civili e penali in materia minorile, assegnandosi le prime all’istituenda sezione del tribunale ordinario, lasciando le seconde ai tribunali per i minorenni.
Nella giustizia minorile il penale e il civile sono inscindibili e ogni soluzione di segno contrario ridurrebbe l’intervento penale ai profili meramente punitivi e repressivi e perciò impropri o incompleti.
Tutto cio’ ovviamente non implica la mera conservazione dell’esistente ,ché al contrario appare necessario un intervento riformatore di unificazione delle competenze attualmente disperse in capo ad un unico giudice realmente specializzato e presente in modo più diffuso sul territorio.
Allo stesso modo, è irrinunciabile dare spazio, nelle procedure dinanzi al tribunale per i minorenni, alle esigenze del contraddittorio e della difesa in coerenza con i principi del giusto processo recentemente costituzionalizzati.
Non si vede, tuttavia, per quale ragione tali principi – peraltro già di fatto applicati pure in mancanza di una normativa di attuazione alla quale il legislatore non ha ancora provveduto - non possano avere ingresso nei tribunali per i minorenni sicché - per realizzarli - occorra sopprimere quest’organo della giurisdizione alla cui attività è innegabilmente connessa la crescita della cultura minorile negli ultimi trent’anni.
Non si può infine non esprimere grande disagio per la rappresentazione massmediatica, persistentemente unilaterale, di episodi riguardanti l’infanzia e l’adolescenza e i provvedimenti dei giudici minorili, soprattutto quando essi incidono sulle relazioni parentali.
Pur senza entrare nel merito, in particolare della polemica intorno ad un intervento del tribunale per i minorenni di Milano, non possiamo non rilevare che non si può valutare una situazione complessa ignorando la globalità delle risultanze processuali e che non è accettabile - fermo restando il diritto di informazione e di critica - che siano additati al pubblico disprezzo persone le quali - per ragioni di riserbo connesse alla loro funzione e alla tutela degli stessi soggetti interessati - non possono rappresentare le loro ragioni.
Roma, 23.2.03 Il Consiglio direttivo