Alfredo Carlo Moro: Ricordo di un maestro e di un amico
Luigi Fadiga
Ricordo di un maestro e di un amico
Saranno tre mesi domani, che Alfredo Carlo Moro – Carlo, per gli amici – ci ha lasciato.
Lo ha fatto com’era nel suo carattere: con grande discrezione, con riserbo, direi quasi con pudore, dopo una rapida e improvvisa malattia che lo ha colto nel pieno della sua attività. Un’attività così piena, così vigorosa, che la primissima reazione alla notizia della sua morte è stata, per me e per molti, non quella del dolore ma quella dell’incredulità.
Carlo ?? com’è possibile ? con tutto quello che c’è da fare ?
Ho conosciuto Carlo Moro all’inizio degli anni settanta, quando egli era presidente dell’Associazione dei giudici minorili e di quel tribunale per i minorenni di Roma dove vent’anni dopo, quando toccò a me reggere quell’ufficio, era ancora ricordato e rimpianto da numerosi colleghi.
A quell’epoca io ero un giovanissimo giudice del tribunale per i minorenni di Bologna, la mia città, dov’era presidente Italo Cividali, mio primo carissimo maestro. Italo Cividali e Giuseppe Delfini, suo predecessore non meno illustre, venivano spesso a Roma per riunioni dell’Associazione dei giudici minorili o per commissioni di studio, ed io, riverentemente, li seguivo.
Le riunioni si svolgevano in via delle Zoccolette, in un palazzotto d’angolo tra il Lungotevere e via Arenula, dove allora aveva sede il tribunale per i minorenni di Roma. Ricordo come fosse ora la stanza del presidente, con delle lunghe tende scure e polverose e un grande divano verde sfondato, che non finiva mai di meravigliarmi. Pensavo: ma perché non lo cambiano? non sapevo ancora, quella volta, quanto poco la giustizia minorile stesse a cuore ai nostri governanti e al nostro ministero.
Più di Cividali, che sentivo fratello, più ancora di Delfini, che per noi giovani magistrati bolognesi era una specie di nonno buono, Carlo Moro mi faceva soggezione e mi incuteva un timore reverenziale. Ma, sentendolo parlare, seduto piuttosto scomodo ed in rispettoso silenzio su quel divano verde sfondato, la soggezione passava in fretta, lasciando il posto a un’emozione diversa: una grande curiosità mista ad un grande entusiasmo per quello che Carlo andava dicendo e per gli orizzonti che ci apriva.
C’era poi una simpatica consuetudine: di continuare la discussione nella trattoria di Evangelista, a quell’epoca un umido scantinato di via delle Zoccolette, dove per poche migliaia di lire si mangiavano dei meravigliosi carciofi al mattone, variante dietetica non fritta dei carciofi alla giudìa. Dietetica si fa per dire: perché, prima e dopo i carciofi, e anche qui sotto la guida sapiente di Carlo, ho scoperto con non minore emozione gli spaghetti cacio e pepe e i filetti di baccalà, cibi del tutto ignoti alla natia Bologna.
Erano gli anni in cui si discuteva di come riformare la giustizia minorile; scossa dai fermenti della contestazione giovanile, che rifiutava talora con violenza i ruoli di autorità e di controllo sociale. L’intero sistema amministrativo dei tribunali per i minorenni, ricostruito vent’anni prima da quel pioniere che fu Uberto Radaelli, era sotto accusa, e sembrava che per il giudice minorile non vi fosse più spazio alcuno.
In quel difficile clima, un piccolo gruppo di colleghi che a noi parevano anziani ma che avevano sì e no cinquant’anni, riusciva a trovare lo stretto sentiero che non soltanto recuperava la ragion d’essere del giudice minorile, ma anzi ne preparava il rilancio: il sentiero dei diritti del minore. Non posso qui tacere i nomi di almeno alcuni di loro. Italo Cividali, a me carissimo, e Paolo Vercellone, entrambi ancora con noi e ancora attivi. E poi Giuseppe Delfini, il nostro buon nonno bolognese; e poi Giampaolo Meucci e Giorgio Battistacci, che purtroppo ci hanno prematuramente lasciato.
Con questi e tra questi, Carlo Moro: che spiccava per la organicità e la lucidità del suo pensiero e per la paziente tenacia con cui perseguiva la meta.
Carlo faceva parte allora della Commissione ministeriale di studio per i problemi minorili, istituita presso il Ministero della giustizia. Era il 1974, ed era alle porte una serie imponente di riforme che toccavano molto da vicino la giustizia minorile senza tuttavia rispettarne i principi, che rischiavano di rimanere stravolti o addirittura travolti. Preoccupava in maniera particolare la riforma del processo penale, a cui lavorava la prima commissione Pisapia. Carlo seppe difendere con vigore il diritto del minore ad essere giudicato dal suo giudice, gettando così i semi di quello che più tardi sarebbe divenuto il nuovo processo penale minorile.
In quei difficili anni settanta, la giustizia minorile era fortemente impegnata nel campo dell’adozione dei minori abbandonati. Gli istituti assistenziali erano affollati da circa duecentomila bambini e ragazzi (oggi, sono poche migliaia); e la nuova e rivoluzionaria legge Dal Canton del 1967 sull’adozione speciale incontrava resistenze e ostacoli in nome del vincolo del sangue e di concezioni arcaiche della patria potestà. Le sentenze con le quali noi, giovani giudici di tribunale, dichiaravamo lo stato di abbandono, venivano sistematicamente annullate dalle corti di appello. Così, la corte d’appello di Palermo dichiarava non essere in stato di abbandono l’orfano di genitori abbienti periti in un disastro aereo, in considerazione del cospicuo patrimonio da lui ereditato; così un’altra corte dubitava della costituzionalità della nuova legge che non permetteva al genitore di mettere il figlio in istituto e di lasciarvelo a suo piacimento.
Quando più acceso era il contrasto, ecco uscire un volume che fu per noi di incoraggiamento e di sprone, direi quasi di sollievo: la monografia di Carlo Moro su L’adozione speciale, édita da Giuffré nel 1976. E’ difficile spiegare l’emozione provata vedendo scritti (e da chi scritti) quei concetti e quei principi nei quali ci riconoscevamo, e che i giudici “superiori” neanche troppo velatamente irridevano. Ed è in quel volume, di trent’anni or sono, che si parla apertamente e per la prima volta di diritto alla famiglia, non nella troppo lodata legge 149 del 2001, i cui frettolosi elogiatori neppure immaginano che quei concetti e quelle idee erano stati già affermati un quarto di secolo prima da Alfredo Carlo Moro.
Scriveva Carlo in quelle pagine:
“L’insufficiente riconoscimento dei diritti del minore … trova la sua logica radice in una concezione del minore come speranza di uomo più che come persona fornita di una sostanziale pienezza di umanità che deve essere sviluppata ed affinata.
Il minore non è un individuo che attraverso un processo educativo diviene persona, secondo una equivoca e per molti aspetti infelice formula di Carnelutti. Ogni uomo, solo per il fatto di essere tale … ,è persona, e conseguentemente soggetto e beneficiario dell’ordinamento giuridico. La semplice qualità umana deve essere sufficiente a rendere il soggetto portatore potenziale di tutti gli interessi giuridici tutelati dal sistema, nonché titolare di un insieme di diritti e di garanzie che si collegano alla sua personalità: il valore fondamentale che ogni persona porta in sé è infatti presente qualunque sia il grado del suo sviluppo fisico o psichico.”
Ed ancora: “L’ordinamento ha operato una pericolosa … scissione tra soggettività giuridica da una parte e capacità giuridica dall’altra, riconoscendo la prima a tutti gli esseri umani ma riducendo la seconda in maniera tale da pregiudicare gravemente l’affermazione meramente teorica che tutti sono ugualmente soggetti di diritto. E’ avvenuto ieri per la donna; avviene oggi per i minori, a cui sono riconosciuti quasi esclusivamente diritti nel campo patrimoniale, e cioè lì dove meno sono coinvolti i bisogni fondamentali della persona”(op. cit., pp. 20-21).
Nel campo dell’adozione dell’infanzia abbandonata, intesa come espressione massima dei diritti del minore da un lato e della cultura dell’accoglienza dall’altro, Carlo Moro è stato particolarmente attivo anche in seguito. Molto forte è stato il suo impegno nella preparazione della legge 4 maggio 1983 n. 184, che ancora oggi, malgrado i guasti operati dalla legge 149 del 2001, reca la sua impronta e costituisce il testo fondamentale in materia di adozione e di affidamento dei minori. Ma addirittura determinante è stata la sua opera in materia di adozione internazionale. La legge 31 dicembre 1998 n. 476, che ha ratificato la Convenzione de L’Aja del 1993 e che ha finalmente disciplinato un delicato settore lasciato troppo a lungo in balia degli interessi degli adulti, è in gran parte opera sua, e ne ricordo bene il rammarico quando vedeva che i lavori parlamentari, per esigenze di compromesso politico, ne stravolgevano alcune norme.
A Carlo Moro si deve poi il disegno di legge sulla riforma della giustizia minorile presentato al Senato nel corso della IX Legislatura dal Guardasigilli dell’epoca on.le Mino Martinazzoli. Quel testo non raggiunse purtroppo l’Aula. Esso tuttavia rappresenta il primo tentativo organico di razionale sistemazione dell’intera materia dopo la legge minorile del 1934, e costituisce una miniera di idee e di proposte innovative alla quale lo stesso legislatore ha successivamente attinto a piene mani.
Di quelle proposte ne citerò solo alcune. In materia penale: l’art. 65, divenuto poi l’art. 27 (proscioglimento per irrilevanza del fatto) del d.p.r. 448/1988 sul nuovo processo penale minorile; l’art. 66, divenuto l’art. 28 (sospensione del processo e messa alla prova); l’art. 83, divenuto l’art. 10 (inammissibilità dell’azione civile nei procedimenti penali davanti al tribunale per i minorenni); art. 71, divenuto l’art. 11 (specializzazione dei difensori del minore). Nella materia civile: gli interventi a protezione del minore in difficoltà (art. 37), vale a dire il cosiddetto “civile rafforzato”: primo serio tentativo di colmare lo squilibrio creatosi con il tramonto delle misure rieducative risalenti alla riforma degli anni cinquanta; l’assistente per la protezione del minore (art. 33); l’ufficio di pubblica tutela (art. 93).
Quest’ultimo tema fu a Carlo Moro particolarmente caro. Egli era convinto che nella protezione del minore dovesse essere coinvolta la comunità sociale di appartenenza, attraverso forme di partecipazione diretta dei suoi componenti; e che fosse inoltre necessario un soggetto istituzionale specifico, esterno alla giurisdizione, col ruolo di promotore e di garante dei diritti anche nei confronti della pubblica amministrazione. Questo suo disegno, che in alcune zone del Paese ha trovato parziale realizzazione, a livello nazionale è rimasto purtroppo solo un progetto: ma non è azzardato affermare che prima o poi darà i suoi frutti, come tante altre sue fertili idee.
Qui va anche ricordato il contributo dato da Carlo Moro ai Rapporti annuali sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, dei quali egli fu dal 1996 al 2001 curatore scientifico, e, nel 1998, il Rapporto alle Nazioni Unite sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza: rapporti realizzati da quel Centro Nazionale di Documentazione ed Analisi sull’infanzia e l’adolescenza, di cui Carlo stesso fu ideatore e fondatore e, sino all’inizio dell’ultima legislatura, infaticabile ed insuperato animatore.
Ed è proprio attraverso quei Rapporti che si può cogliere l’ampiezza dell’angolo di visuale di Carlo Moro. La sua opera e la sua attività scientifica non si sono limitate al campo pure così fecondo della giustizia minorile, ma si sono allargate a tutto l’arco del rapporto tra minori ed ordinamento giuridico, riuscendo a dare organicità e dignità scientifica a un insieme di norme giuridiche prima sparso ed incoerente. Il suo Manuale di diritto minorile, giunto ormai alla terza edizione, rappresenta l’apice di questo percorso. Accanto alle tradizionali categorie del civile e del penale –significativamente chiamate da Moro “ minore e famiglia”; “minore e recupero sociale” – un’intera parte del volume, la terza, è dedicata ai diritti del minore nella vita sociale. Là si prendono in esame i rapporti fra minore e salute; minore e lavoro; minore e scuola; minore e massa media: in un insieme organico che ben merita il titolo innovativo (e purtroppo ancora ignoto alle classificazioni ministeriali degli insegnamenti di giurisprudenza) di diritto minorile.
La rivista Bambino incompiuto, che Carlo Moro fondò e diresse dal 1984, testimonia ulteriormente il suo pensiero e il valore innovativo di questo approccio. Esso è basato sulla centralità del minore, sulla sua dignità di persona, sul suo diritto a un pieno e completo svolgimento del processo educativo e socializzatore. Sorta come espressione della neonata Associazione Italiana per la Prevenzione dell’Abuso all’infanzia, promossa dallo stesso Moro e presieduta da Renata Gaddini, Bambino incompiuto fu la prima rivista interculturale dedicata ai temi dell’infanzia e dell’età evolutiva, volta a creare , come precisava il sottotitolo, “una nuova cultura dell’infanzia e dell’adolescenza”. Era rivolta ai giudici, ai servizi e al volontariato, vale a dire a tutti coloro che operano a contatto con il mondo dei giovani. Sociologi come Gianni Statera, psichiatri come Glauco Carloni, pediatri come Emiliano Rezza, giuristi come Giuseppe Franchi, accolsero l’invito di Carlo Moro, ne condivisero gli scopi, e per molti anni fecero parte attiva del comitato scientifico della rivista.
Purtroppo, nel 1996 la rivista cessò le pubblicazioni. Ma quella spinta concorde ed entusiasta verso una nuova cultura dell’infanzia promossa da Carlo Moro non è stata certo vana, e ha dato ancora frutti numerosi e importanti. E se più tardi ciò non più è avvenuto, questo non va attribuito a debolezza delle sue idee e delle sue proposte, ma va addebitato invece alla miopia e all’incapacità di coloro cui spettava raccoglierne il messaggio a livello politico e legislativo.
E proprio questo turbava Carlo Moro in questi ultimi anni, e questo è stato per noi il suo ultimo messaggio: la caduta di un’autentica cultura dell’infanzia e del rispetto della persona del bambino; l’emergere di una cultura dell’appropriazione dei figli da parte dei genitori; del diritto ad una genitorialità comunque procurata e pagata; del rifiuto di ogni controllo sull’esercizio del potere dei genitori sui figli: “il ritorno, sia pure in forme diverse, alla vecchia figura del padre padrone, a cui si aggiunge la non meno conturbante figura della madre padrona”. Così scriveva Carlo, nell’ultimo suo contributo uscito postumo su MinoriGiustizia (numero 3/2005) la rivista dell’Associazione dei giudici minorili alla quale spesso collaborava e alla quale voleva bene.
Com’è facile immaginare, le altre cose che Carlo ha fatto e ha scritto, e che ho tralasciato di ricordare, sono assai più di quelle che ho detto, e sono tutte importanti, utili, belle e buone. Mi scuso per queste omissioni. Ma il mio intervento non voleva essere un catalogo, bensì una testimonianza personale di affetto e di riconoscenza verso chi, per tanti anni, ha saputo starci accanto come maestro e come amico, con una discrezione e con una delicatezza che fanno adesso sentire ancora più acuta la perdita.
Grazie, Carlo, per tutto ciò che hai fatto per noi e per il nostro Paese.